“Ho avuto un linfoma a 34 anni: ecco cosa nessuno ti dice sul cancro”

Una testimonianza commovente mette in luce una carenza ancora troppo diffusa: la salute mentale dei pazienti oncologici spesso viene trascurata.

Quando a 34 anni gli è stato diagnosticato un linfoma non Hodgkin, stava attraversando uno dei periodi più sani della sua vita. Correva regolarmente, seguiva una dieta equilibrata e si sentiva in forma. Ma il cancro è arrivato all’improvviso, travolgendo ogni certezza.

Il protagonista di questa storia — che ha scelto di raccontare pubblicamente il proprio vissuto — ha sperimentato in prima persona quanto la diagnosi oncologica non colpisca solo il corpo. L’impatto psicologico della malattia, infatti, è stato devastante. E proprio come tanti altri pazienti, ha commesso un errore che oggi riconosce: ha trascurato il bisogno urgente di supporto psicologico.

L’inizio: dalla diagnosi alla chemioterapia in poche settimane

Nel 2019, la diagnosi è arrivata come un fulmine a ciel sereno. In pochi giorni, ha dovuto imparare a convivere con un termine che non aveva mai considerato: linfoma non Hodgkin. Il tempo di metabolizzare la notizia, e già si trovava catapultato nel vortice delle terapie. La chemioterapia è iniziata a stretto giro.

“In quel momento tutto era troppo veloce per riuscire a elaborare davvero ciò che stava accadendo”, racconta. “Il mio istinto era solo quello di andare avanti, fare il possibile, non pensare”.

Ma la mente, si sa, non può essere ignorata a lungo.

Trapianto, isolamento e crollo emotivo

Dopo mesi di trattamenti, il percorso ha previsto un trapianto di cellule staminali, intervento delicato che richiede un recupero complesso e, spesso, solitario. È in quel momento che l’equilibrio emotivo ha iniziato a cedere.

Il contesto non ha aiutato. Il trapianto è avvenuto all’inizio del 2020, in piena esplosione della pandemia da COVID-19. Il sistema immunitario compromesso lo ha costretto a un isolamento rigido, che dura tuttora.

“Mi sentivo solo, spaventato, in una gabbia. Non riuscivo più a gestire il dolore, l’ansia, l’angoscia. Non ero più in grado di affrontare nulla”.

Il punto di svolta: una psicologa in corsia

Il cambiamento è arrivato grazie a una figura che troppo spesso manca nei reparti oncologici: una psicologa clinica. Non era un servizio garantito dal sistema sanitario, ma reso possibile grazie ai finanziamenti della fondazione Anthony Nolan, che aveva inserito una figura di supporto psicologico all’interno dell’equipe medica.

“Parlare con una professionista è stato un punto di svolta. Non era solo conforto: mi ha dato strumenti concreti per affrontare la paura della morte, le difficoltà con i miei familiari, il senso di impotenza”.

Una rete di affetti, ma serve molto di più

Il paziente non era solo. Accanto a lui c’erano la sua compagna — che avrebbe poi sposato durante il lockdown — la famiglia, gli amici. Eppure, sottolinea quanto il sostegno emotivo di chi ci ama non basti sempre: il supporto di uno specialista fa la differenza.

E aggiunge: “Anche la mia compagna avrebbe avuto bisogno di aiuto. Ha tenuto in piedi la nostra vita mentre io mi curavo. Ha affrontato le mie paure e le sue, senza alcuna protezione. Chi sostiene i caregiver?”.

Una riflessione urgente: perché il supporto mentale è ancora opzionale?

Questa testimonianza, intensa e diretta, solleva una domanda che riguarda migliaia di persone: perché la salute mentale dei pazienti oncologici è ancora trattata come un optional?

Nel suo caso, il percorso di cura fisico è costato — tra farmaci, degenze e terapie — decine di migliaia di euro. Ma senza il sostegno psicologico ricevuto, confessa, non sa se sarebbe ancora vivo.

E allora viene da chiedersi: “Se mente e corpo sono collegati, perché curiamo uno solo dei due?”.

La proposta: psicologi clinici in ogni reparto oncologico

Secondo diverse ricerche italiane, meno del 40% dei reparti oncologici dispone di un servizio psicologico strutturato. E spesso si tratta di sportelli esterni, non integrati nell’équipe medica. Ma proprio l’integrazione, come dimostra questa esperienza, può salvare vite.

“Serve un cambio di paradigma”, sostiene. “Il supporto psicologico non deve dipendere da una donazione o da una fortuna geografica. Deve essere parte integrante del protocollo”.

Anche i caregiver hanno bisogno di cure

Chi sostiene i malati spesso affronta un dolore parallelo. Eppure, il sistema continua a considerarli invisibili. “La mia compagna è stata la mia roccia. Ma nessuno le ha mai chiesto come stava davvero. Non è giusto”.

Curare anche l’anima

La storia di questo paziente è una delle tante che rivelano un paradosso nella sanità moderna: si spendono somme enormi per trattare la malattia, ma si risparmia su ciò che aiuta a sopravvivere davvero — la mente.

La sua è una voce potente, che chiede un’assistenza psicologica di base per tutti i pazienti oncologici, inclusi i familiari. Un invito che il sistema non può più ignorare.

FAQ: Domande frequenti

Tutti i pazienti oncologici hanno diritto a supporto psicologico?
Non in modo uniforme. Molti ospedali non lo offrono o lo fanno in modo parziale.

Esistono servizi gratuiti?
Sì, ma sono spesso legati a fondazioni, associazioni locali o progetti specifici.

Come si accede a questi servizi?
Può bastare la segnalazione del medico curante, ma in alcuni casi serve una richiesta formale.

Anche i familiari possono essere seguiti?
In alcuni centri sì, ma la prassi non è diffusa in tutta Italia.

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