Perché milioni di pazienti potrebbero non aver bisogno dei betabloccanti dopo un infarto
Uno studio spagnolo‑italiano mette in discussione decenni di prassi medica nella cura post‑infarto.
Quante persone stanno assumendo ogni giorno un farmaco che forse non serve? I cardiologi Valentín Fuster e Borja Ibáñez spiegano che sì, è accaduto: uno studio clinico con oltre 8.500 partecipanti ha rilevato che i betabloccanti – farmaci che da decenni si prescrivono dopo un infarto – «non apportano beneficio alcuno» nella maggior parte dei pazienti che mantengono una buona funzione cardiaca. Il risultato è rilevante per decine, forse centinaia di milioni di persone nel mondo. Lo riporta El Pais.

La conclusione, tuttavia, ha suscitato scetticismo: perfino la struttura del ministero competente in Spagna ha parlato di “articoli contraddittori” e di “canti di sirena” legati a scoperte che sembrano troppo appariscenti.
La questione riguarda decine di milioni di soggetti che ogni giorno assumono uno o due compresse di questi farmaci. I betabloccanti possono salvare la vita in casi di aritmia, insufficienza cardiaca cronica o disfunzione del ventricolo, in quanto dilatano i vasi, rallentano la frequenza cardiaca, riducono la pressione. Ma comportano anche effetti collaterali: stanchezza persistente, calo del desiderio sessuale.Ecco perché va prescritto solo quando serve davvero.
Ora il gruppo spagnolo annuncia nuovi dati, che definiscono «irrefutabili» secondo Ibáñez: l’analisi di cinque studi clinici in otto paesi (quasi 18.000 partecipanti) conferma che nei pazienti senza perdita della funzione ventricolare i betabloccanti non sono necessari.
Ibáñez stima che soltanto in Spagna circa 1,2 milioni di persone assumano quotidianamente questi farmaci senza reale indicazione, pur riconoscendo che ci sono almeno 500.000 pazienti per i quali sono consigliati. I due cardiologi avvertono che nessuno deve sospendere il trattamento senza aver prima consultato il cardiologo.
I risultati sono stati presentati a New Orleans durante il Congresso della American Heart Association e pubblicati sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine.
Il professor Fuster, che dirige il Centro Nacional de Investigaciones Cardiovasculares (CNIC) a Madrid e presiede l’ospedale cardiaco a New York che porta il suo nome, racconta di aver smesso già da una decina d’anni di prescrivere betabloccanti nei casi non complicati di infarto. Una decisione tutt’altro che facile. Fuster è stato allievo del medico britannico Desmond Julian, pioniere dei trial che avevano stabilito l’utilità dei betabloccanti dopo infarto. A partire dal 2005, con la diffusione degli stent coronarici, l’efficacia di quei farmaci in certi pazienti ha iniziato a ridursi.
Cosa dicono gli studi recenti sui betabloccanti dopo infarto
Negli ultimi anni la comunità cardiologica aveva già iniziato a interrogarsi sull’efficacia dei betabloccanti dopo infarto nei pazienti con funzione ventricolare preservata (cioè con buona capacità di pompaggio del cuore). Un articolo del 2021 osservava che nelle linee guida europee (European Society of Cardiology) la raccomandazione a favore di questi farmaci in tali pazienti era di classe II a, livello di evidenza B – insomma: suggerita, ma non basata su prove robuste.
Più recentemente, un’analisi pubblicata nel 2025 ha messo in evidenza che, dopo un infarto senza compromissione della funzione del ventricolo, l’uso continuativo dei betabloccanti non riduceva significativamente la mortalità né gli eventi cardiovascolari gravi rispetto al non uso.
Ad esempio, nella rassegna “Long‐Term Use of Beta‑Blockers After Myocardial Infarction” si segnala che il beneficio nei pazienti con frazione di eiezione preservata non è provato con forza.
Le linee guida 2023 della ESC confermano che i betabloccanti sono fortemente raccomandati solo quando la frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) è ≤40% dopo un evento coronarico acuto.
In sintesi: oggi pare che per quei pazienti che hanno avuto un infarto, sono stati rivascolarizzati (con stent o altra procedura), e mantengono una funzione ventricolare buona, l‘obbligo automatico di betabloccanti non è più certo.
Indice dell'articolo
Qual è l’impatto e cosa cambia per i pazienti
Questo nuovo scenario ha rilevanti implicazioni sia cliniche che sanitarie.
Implicazioni per i pazienti
- Se hai avuto un infarto e la pompa del cuore funziona bene, ti potrebbe essere proposto di valutare con il cardiologo se continuare o meno i betabloccanti.
- Non significa sospendere in autonomia: il monitoraggio del medico è indispensabile.
- Per chi invece ha insufficienza cardiaca, disfunzione ventricolare (frazione di eiezione bassa) o aritmie importanti, i betabloccanti restano indicati.
Implicazioni per il sistema sanitario
- Il professor Ibáñez stima che solo in Spagna ci siano circa 1,2 milioni di persone che assumono betabloccanti senza un’apparente indicazione forte, mentre circa 500.000 le assumono correttamente.
- Anche se ogni confezione costa pochi euro, su un milione di pazienti lo “spreco” potrebbe arrivare a decine di milioni di euro l’anno.
- Dall’altra parte, ridurre l’assunzione dove non serve significa alleggerire effetti collaterali evitabili e migliorare la qualità di vita dei pazienti.
Cambiamento nelle linee guida
Gli autori prevedono una revisione immediata delle linee guida sul trattamento post‑infarto in tutto il mondo. Qualcosa sta già muovendosi: l’aggiornamento delle raccomandazioni riguarderà più finemente il profilo del paziente, in particolare la funzione ventricolare residua, l’entità della rivascolarizzazione, la presenza di complicazioni. Il sito della ESC lo riporta come punto centrale nella gestione a lungo termine: betabloccanti raccomandati solo se LVEF ≤40%.
Qualche cautela
- Non tutti gli studi sono identici tra loro, e gli autori stessi segnalano che in certe sotto‑categorie (per esempio le donne) i dati erano in precedenza più controversi.
- La decisione va presa caso per caso, tenendo conto di altri fattori (età, comorbidità, tolleranza al farmaco, possibile effetto collaterale).
- Anche se i risultati sono molto robusti, l’adozione clinica richiede tempo.
Lo sapevi che…?
- I betabloccanti furono introdotti massicciamente nei pazienti post‑infarto già negli anni ’70, quando i trattamenti di rivascolarizzazione erano molto meno sofisticati rispetto ad oggi.
- La diffusione degli stent coronarici intorno al 2005 ha ridotto notevolmente l’incidenza di danno residuo al ventricolo, modificando così il contesto in cui erano stati studiati quei farmaci.
- Un effetto collaterale frequente dei betabloccanti è la stanchezza cronica o la diminuzione del desiderio sessuale. In un’epoca in cui la qualità della vita assume importanza crescente, questo aspetto non è irrilevante.
FAQ
D: Significa che se ho avuto un infarto posso smettere i betabloccanti da solo?
R: No. La sospensione va sempre valutata con il cardiologo. Non è una decisione automatica.
D: Chi deve assolutamente continuare a prendere betabloccanti?
R: Pazienti con frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) bassa (ad esempio ≤ 40 %) o con insufficienza cardiaca, aritmie significative o altri indicatori di rischio.
D: Perché prima li si prescrivevano a tutti dopo un infarto?
R: Perché gli studi iniziali risalgono a un’epoca in cui le procedure di rivascolarizzazione erano meno sofisticate e il danno al ventricolo più frequente. Con l’evoluzione della cardiologia, il contesto è cambiato.
D: Cosa significa “funzione ventricolare preservata”?
R: Che il ventricolo sinistro del cuore conserva una buona capacità di pompaggio del sangue, indicata da una frazione di eiezione (LVEF) elevata o normale.
D: Quali sono gli altri elementi da valutare oltre alla frazione di eiezione?
R: Completamento della rivascolarizzazione, assenza di complicazioni post‑infarto, assenza di insufficienza cardiaca, età, comorbidità, tolleranza al farmaco, effetti collaterali.





